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VARROA E API ALLA DERIVA
9 Ott 2021

VARROA E API ALLA DERIVA

Post by la redazione

VARROA: IL FENOMENO DELLA DERIVA DELLE API E LA RE-INFESTAZIONE

PARTE QUARTA DI QUATTRO

Libera traduzione da Randy Oliver, American Bee Journal, aprile e maggio 2018, vol.158, nn 4 e 5. ‘The varroa problem part 16 e 16b: Bee drift and mite dispersal’Vedi introduzione.

La deriva all’interno degli apiari è sicuramente responsabile almeno in parte della diffusione di varroe tra alveari; i numeri aumentano inoltrandosi verso il fine stagione, quando si verificano collassi e saccheggi.

Quantificare il fenomeno: quante sono le varroe alla deriva?

Purtroppo, come sappiamo, se la varroa non viene opportunamente ridotta, lo stress dovuto alla popolazione parassita di acari combinato con la presenza epidemica di diversi virus alla fine può determinare il collasso della colonia. Quando accade, le varroe presenti sono molte. E’ verso fine estate, inizio autunno che gli alveari si spopolano fino all’annientamento, lasciando di solito nidi vuoti di api, pieni di miele e NESSUNA VARROA! Dove finiscono le varroe? Mica se ne escono camminando, le varroe: hanno sempre bisogno di un passaggio.

Faccio delle ipotesi:

  • l’ape infestata vola fuori dall’alveare portandosi il parassita appresso: si sacrifica per morire distante dal nido con il suo carico nocivo;
  • l’ape in fuga ‘va alla deriva’ con le sue varroe verso altri alveari;
  • le varroe saltano su una saccheggiatrice per lasciare in tempo la nave che affonda.

Chiaramente la seconda e terza opzione sono gravide di conseguenze per tutti gli alveari dei dintorni.

Ci sono pochi studi che hanno cercato di valutare i flussi di immigrazione/emigrazione verso e da gli alveari. Tutti convergono nel concentrare il fenomeno a tarda stagione, verso l’epoca dei saccheggi e dei collassi.

Vediamo un po’ di numeri, tanto per renderci conto del fenomeno.

I dati più impressionanti (risalgono ad uno studio del 1992) sono quelli di Greatti[1]: in una stagione ha contato tra le 2000 e le 3500 varroe immigrate in ognuno dei 10 alveari monitorati, con picchi di anche 500 varroe nel giro di quattro giorni, nonostante tutti gli alveari degli apiari circostanti fossero stati trattati (o fossero sotto trattamento acaricida).

E qui si affollano le domande: varroe che entrano con api che abbandonano alveari prossimi al collasso? Saccheggiatrici che si portano a casa l’ospite meno desiderato? O forse alveari selvatici, sciami sfuggiti agli apicoltori e quindi non trattati? Ancora sono alla ricerca di risposte convincenti; nell’intanto, aggiungo delle osservazioni di interesse.

Collasso e saccheggio

Quando una colonia inizia a declinare verso il collasso, le operaie sono debilitate dai virus e non riescono a difendersi dalle saccheggiatrici; è facile ipotizzare che le varroe salgano sulle ladruncole appena possibile. Alcune osservazioni di Greatti mi paiono particolarmente degne di nota:

‘Era difficile capire da dove arrivassero le varroe: la domanda che mi facevo era dove/come sopravvivessero tante varroe durante i trattamenti acaricidi, visto che in tutti gli apiari vicini la varroa veniva opportunamente contenuta e quindi i livelli di infestazione fossero tenuti bassi. Quindi pareva ragionevole che molte varroe provenissero da sciami ‘selvatici’ (o meglio: non gestiti). Nelle vicinanze (200 metri) dell’apiario sperimentale ne trovammo però solo due: uno fu preso, l’altro morì a causa dei ripetuti saccheggi’.

Aggiungo la curiosa osservazione di un altro ricercatore, che ci aveva impressionato con i risultati di una colonia: sottoposta a ripetute sublimazioni di ossalico, aveva totalizzato un record di caduta di 17.000 varroe.

‘Quell’alveare era davvero molto forte e nella stagione aveva raccolto circa 100 kg di miele; il dato notevole è che nonostante le fioriture fossero cessate, continuava ad importare miele. Allora non l’avevo capito: il miele, come le varroe, entrava per via dei saccheggi ai danni di colonie più deboli e molto infestate’ ( Il ricercatore è Donald Aitken e Randy Oliver lo cita nel testo del suo articolo ‘ Bee drift and varroa dispersal’, ABJ maggio 2018, p. 529)

Ora facciamo insieme due conti: una bottinatrice al saccheggio si porta tranquillamente a casa 50 mg di miele alla volta; ogni libbra (mezzo chilo circa) di miele acquistato dalla colonia significa per lo meno 9000 viaggi di api che tornano cariche dal prelievo illecito; se fosse anche che ogni dieci voli di rientro con il miele entra in casa una varroa… sono circa 900 varroe guadagnate!

Usando le bilance è certo più facile farsi un’idea di quel che succede e mettere in correlazione questi dati (aumento di peso/re infestazione). E può anche farci capire come alcune colonie siano molto più infestate di altre a tarda stagione.

Altra interessante osservazione di Greatti è che:

‘il saccheggio ai danni di colonie non gestite o selvatiche si osserva raramente.. forse il saccheggio non è sempre plateale, specie se qualche fonte nettarifera è presente e quindi ce ne accorgiamo con difficoltà’.

Parliamo di ‘saccheggio latente’: potrebbe darsi il caso che colonie deboli a causa di varroe e altre disgrazie ne siano vittima. Che sia anche questa una comoda via di diffusione per le varroe? Ricordiamo l’osservazione già citata sull’interesse che le varroe di colonie molto infestate dimostrano per le api ‘estranee’. E quindi, a ben vedere, la pressione selettiva che aveva fatto del saccheggio un comportamento adattivo vincente, oggi non funziona più molto bene. Ogni boccone di miele preso a gratis ne porta con sé uno di varroa.

Dati sulle distanze percorse per il saccheggio non ne ho ancora visti; Seeley ha raramente osservato il fenomeno nella famosa Arnot Forest, dove la densità di alveari è molto bassa. Al contrario, Seeley e Loftus[2] hanno però osservato un significativo aumento di acari negli alveari di un apiario in corrispondenza del collasso di un alveare sito a 60 metri di distanza.

Mi rimane ancora una questione aperta:

Cosa accade alle api infestate da acari quando una colonia collassa?

E insomma, l’abbiamo visto un po’ tutti: all’improvviso, dall’oggi al domani le api ‘spariscono’. Non ci sono morti, è chiaro che le api se ne sono andate. Ma dove? Se ne escono a morire? Oppure finiscono (alla deriva) in altri alveari? Pochissimi i dati a nostra disposizione sull’argomento, come quelli raccolti da Dennis van Engelsdorp grazie ad uno dei suoi gruppi di studio: api contrassegnate di una colonia morente ritrovate a considerevole distanza dal punto di partenza.

E certo, vorremmo più ricerca sull’argomento soprattutto per spiegare quei fenomeni di massiccia tarda immigrazione di acari. Greatti scrive che ‘ il grado di re-infestazione di singole colonie variava molto giorno per giorno ma erano sempre le stesse colonie ad essere le più infestate o le meno infestate in osservazioni successive e per periodi di tempo anche lunghi’.

La domanda che mi sorge, da allevatore, è questa: che sia possibile selezionare quelle regine che riescono a mantenere con una certa costanza livelli più bassi di acari, essendo in apparenza in grado di prevenire o contenere l’indesiderato ingresso tardivo di varroe?

Risposte ancora non ne ho, ma c’è di sicuro un aspetto nella gestione dell’apiario che minimizza la reinfestazione autunnale.

Il prezzo da pagare quando gli sciami ci sfuggono

Spesso sento apicoltori che con non chalance affermano “eh, penso che almeno la metà degli alveari mi sia sciamata questa primavera”. Non è però che una volta volati via gli sciami scompaiano.

Come scrive Greatti ‘ uno sciame perso può essere la fonte di migliaia di varroe alla fine della stagione o nell’annata successiva e può essere un bel danno per molte colonie quando indebolito dal suo carico di varroa sarà preda di saccheggio’.

Spesso ci sentiamo raccontare che le api africanizzate[3] hanno un’alta propensione alla sciamatura; questa strategia è frutto di adattamento in aree climatiche con inverni brevissimi, flussi nettariferi regolari e abbondanza di cavità per spostarsi e nidificare.

Nelle regioni asciutte e temperate che abbiamo studiato le fioriture sono scarse e le minori temperature impediscono la riproduzione delle colonie durante l’inverno; rispetto alle aree subtropicali non vi sono così tanti siti per nidificare. Chiaro che nelle fasce temperate la sciamatura è meno frequente rispetto agli ambienti tropicali. Eppure sia Winston[4] e altri hanno  documentato come pure in climi temperati le colonie siano capaci di sciamare anche più volte se lo spazio in cui si trovano è troppo densamente popolato. Le russe Primorsky, adattate al freddo, sciamano ad ogni piè sospinto. Appena le condizioni sono buone alveari non gestiti in modo appropriato sciamano tutti almeno una volta a stagione.

Gli sciami si portano via ovviamente della varroa; se riescono a insediarsi, quando la popolazione di varroa raggiunge le 5000/15.000 unità (varroe e virus sempre accoppiati, beninteso) lo sciame morirà e quante di quelle varroe rientreranno nelle nostre colonie?

Ricordiamolo quindi: ogni sciame che ci sfugge è un problema; un problema perché entra in competizione con gli altri alveari, e una fabbrica di varroe che prima o poi soccomberà.

Il controllo della sciamatura è una pratica fondamentale nella buona conduzione degli alveari.

Ecco i veri protagonisti di questo ciclo di articoli: l’associazione a delinquere tra varroa e virus delle ali deformi, una mutualità che potenzia l’uno e l’altra a tutto danno delle api.

Quando abbiamo scritto a Randy Oliver per chiedere il suo permesso alla traduzione di questi articoli, oltre a ribadire che il materiale presente sul suo sito www.scientificbeekeeping.org è da ritenersi di libero accesso, ci ha fornito un aggiornamento ‘dell’ultim’ora’ legato ad un lavoro sperimentale che ancora non è stato oggetto di pubblicazione.

Anticipiamo alcuni risultati che potrebbero interessare i lettori interessati e gli apicoltori incoraggiati, magari sulla scorta di queste letture, a procedere a prove ed esperimenti in proprio:

la deriva avviene di continuo tra alveari, anche a distanze considerevoli di più di mezzo chilometro (pensate a quanto sono vicini in linea d’aria gli apiari nel nostro territorio);

interessa soprattutto le api giovani, estremamente attrattive per le varroe;

eppure non pare esserci una correlazione tra deriva ed eventuale collasso dovuto a carica di varroa e virus delle ali deformi;

in climi mediterranei inoltre il saccheggio non avviene di solito al momento del collasso e quindi non è direttamente la causa della dispersione di varroa;

alcune colonie risultano essere veri magneti per le varroe, mostrandosi sempre più infestate delle vicine (dato che leggiamo ripetutamente in tutte le sperimentazioni che riportino accuratamente la conta di acari negli apiari);

secondo Randy Oliver la re-infestazione nei suoi apiari è dovuta alla presenza di colonie non gestite (sciami naturali) e non al passaggio di varroe tra i suoi alveari.


[1] Greatti M, Milani N, Nazzi F (1992) Reinfestation of an acaricide treated apiary by Varroa jacobsoni Oud. Exp Appl Acarol 16:279–286.

[2] Loftus JC, ML Smith, TD Seeley (2016) How honey bee colonies survive in the wild: testing the importance of small nests and frequent swarming. PLoS ONE 11(3): e0150362.

[3] Nella parte meridionale degli Stati Uniti sono presenti le cosiddette api africanizzate, incroci tra mellifere europee e africane avvenuti a partire dagli anni 1960’ in Brazile. Le api primorski a cui si fa riferimento in seguito sono una sottospecie originaria della penisola siberiana omonima. Sia le prime che le seconde hanno dimostrato di poter convivere con la varroa. Vedi parte 7.1 di Resitenza alla varroa: quanto ne sappiamo. La selezione naturale nel mondo.

[4] Winston, ML (1987) The Biology of the Honey Bee. Harvard University Press.

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